Politiche e culture

AuthorEligio Resta
Pages60-66

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1. Critica e crisi

Potremmo dire che si tratta di concetti di famiglia. Condividono strati di senso complessi che vanno al di là delle radici etimologiche; nella ambiguità della loro correlazione ci suggeriscono sempre dimensioni inattese. Ci si mette sullo stesso crinale quando si parla dell’una e dell’altra e si finisce, persino, per esercitare recriminazioni. Quegli strati di senso ci guidano ancora una volta in questo breve tragitto sulle politiche e sulle culture del controllo che non ha alcuna pretesa se non quella di riprendere alcuni aspetti del "nostro" dibattito di questi anni. Nostro, di Roberto Bergalli, di Sandro Baratta, Luigi Ferrajoli e tanti altri che hanno sempre coltivato, pur con le profonde differenze, formazioni, gusti personali, la necessità della critica di una "teologia" della penalità che continua ad animare i dibattiti disciplinari.

L’intreccio indissolubile tra politiche e culture del controllo sociale è tema caro a Roberto Bergalli. Oserei dire che non si tratta di un tema, ma del tema che ha attraversato tutta la lunga e densa produzione di Roberto Bergalli fin dagli anni ’60, al di là delle opere specificamente dedicate all’argomento, come Control social punitivo (Barcelona, ed. Bosch, 1996), Contradicciones entre derecho y control social (Barcelona 1998) e tante altre. Non si può del resto ripercorre la teoria contemporanea della penalità senza passare per la riflessione di Bergalli che, insieme a Sandro Baratta, è stato uno dei punti di riferimento più interessanti del dibattito. Oltre alla forte tensione critica e alla puntualità analitica nei suoi scritti, sempre, si troverà una dimensione del lavoro intellettuale che mi sento oggi di sottolineare e indicare alle generazioni più giovani di studiosi: tale dimensione è quella cosmopolita che, in epoca non sospetta, aveva guardato alla globalizzazione come al problema principale dei processi culturali e istituzionali. Epoca non sospetta vuol dire semplicemente che di globalizzazione si parlava prima che questo concetto diventasse una moda culturale da grande magazzino senza parlare della quale si è fuori dalla "semantica influente". Si tratta di stili di lavoro che insieme a Roberto avevamo già indicato nel nostro volume sulla Soberania (Paidos, 1996).

Cosmopolitismo, va precisato, non è perdita di identità, rifiuto delle appartenenze, revoca della propria storia: ciò sarebbe soltanto ingenuità. Al contrario il cosmopolitismo riconosce e coltiva le appartenenze e l’identità, ma non è affetto dalle loro "ossessioni". Essere argentino ed europeo nello stesso tempo non è contraddizione se si guarda al collocarsi nel proprio tempo più che al rinchiudersi nel cantuccio delle piccole patrie. E cosmopolitismo è revoca dei confini tanto geo-politici, quanto culturali e, a volte, persino disciplinari. Questo ovviamente non significa che non si debba prestare attenzione ai dati analitici delle singole realtà, anzi: vuol dire soltanto che quei dati non

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devono essere universalizzati in maniera gratuita. Per questo si tratta di un lavoro comparatistico e nello stesso tempo tendente a disegnare una teoria universalistica di fondo che non ha alcuna nostalgia hegeliana.

In omaggio a questa particolare virtù di Roberto Bergalli, le pagine che seguono sono un piccolo tentativo di guardare alla situazione italiana con un occhio ad un processo più generale di ridefinizione delle politiche del controllo. Si sa che noi italiani ci mettiamo del nostro, ma i venti di regressione che stiamo respirando in Italia non sono un caso isolato. Governi che rilegittimano la tortura e dimenticano la grazia sono più frequenti e diffusi di quanto pensiamo; tutto ciò ha bisogno di un lavoro di critica serrata e costante senza la quale nessuno di noi, in qualsiasi parte del pianeta, può riconoscersi come studioso. La vita di Roberto e il suo lavoro, si sa, ne sono un esempio.

2. Poteri di grazia

"Virtù che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutti i doveri del trono": così, in una delle tante pagine di Beccaria che si dovrebbero mandare a memoria, viene definito il potere di "esercitare" la grazia. Esercitare, non concedere, una grazia, perché da essa si allontani il senso di uno scambio occulto, dall’alto verso il basso, in cui alla magnanimità si faccia corrispondere lealtà ed obbedienza, come raccomandavano vecchie tecniche di governo e usi spregiudicati della ragion di stato.

Ed era virtù indispensabile, aggiungeva Beccaria, quanto più ci si trovasse di fronte ad un’imperfetta legislazione dove le pene "non fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito".

Se non fosse paradossale bisognerebbe parlare allora di "dovere" di esercitare la grazia; paradossale perché il dovere presuppone rispondenza ad una regola che imponga di adottare un provvedimento secondo fini e procedure previste dalla legge, ma soprattutto perché si riferisce ad un atto, la grazia, appunto, che è discrezionale nel suo essere emanazione di un potere inappellabile.

Così nella tradizione costituzionale moderna il "potere di grazia" è affidato all’istanza suprema di un’autorità, non di un governo, che è posta al di sopra delle parti. Anzi, proprio la costituzionalizzazione del potere di grazia, ha accentuato il suo carattere eccezionale e "gratuito". Presuppone una condanna e non delegittima il sistema giudiziario, anzi, proprio perché ne riconosce tutta la validità, opera con questa exceptio; ed è gratuito perché si colloca fuori da ogni logica di scambio tra vita e sottomissione o deferenza. Del resto è il linguaggio comune che sedimenta tutti questi sensi: si parla di "stato di grazia", di "riacquistare la grazia" e, sempre, la grazia (da charis) si presenta come il contrario dell’inesorabilità di un destino, appunto, di una pre-destinazione.

Se ne trova un...

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