Una nuova 'narrazione': la strategia dei nuovi diritti

AuthorPietro Barcellona
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1. Discorso scientifico e narrazioni

Uno degli autori a me cari, Kolakowski, in uno dei suoi testi più belli -Presenza del mito- sostiene che le società sono, in modo alterno, dominate da due tipi di miti: il mito dei creditori e il mito dei debitori. Il mito dei creditori è tipico delle società fluenti in cui tutti, specialmente i giovani, pretendono di realizzare qualsiasi desiderio; il mito dei debitori, invece, è il mito delle società che pensano di dovere molto al passato, agli antenati, ai costruttori delle civiltà e quindi sentono sempre di dover adempiere ad un compito assegnatogli. Oggi viviamo in una società dominata dal mito dei creditori e lo si evince dal fatto che in qualsiasi contestazione (studenti, lavoratori) si reclamano solo ed esclusivamente diritti. In ogni caso, l’idea del dovere, a mio parere fondativa del diritto, è scomparsa dall’orizzonte del senso comune. La riflessione di Kolakowski, secondo me, risulta interessante in quanto evidenzia il legame, il più delle volte sottaciuto, tra l’analisi giuridica e il discorso sui miti.

Lo statuto del nostro sapere, spesso, è una narrazione. Al riguardo, nel recente volume di Ulrich Beck, La società cosmopolita, giustamente si sottolinea che le narrazioni non finiscono mai; alle narrazioni dell’‘800 e del ‘900 è subentrata la narrazione della globalizzazione.

Che cosa vuol dire narrazione? Non significa che siamo in presenza di elementi fantastici o di fiabe. La narrazione struttura l’autorappresentazione e costruisce l’identità. Quando nel ‘900 ci siamo raccontati come progressisti, pensavamo di essere non solo gli abitanti della storia che procedeva verso un fine (telos), ma anche parti di progetti complessivi che vedevano in campo sia attori esterni aventi determinate caratteristiche (stati nazionali) che attori interni agli stati (partiti, sindacati). Adesso, invece, siamo entrati in un’altra grande narrazione, la narrazione della società cosmopolita, il cui elemento portante è rappresentato appunto dai "nuovi diritti".

Il fatto che si tratti di narrazioni non significa che il nostro discorso sia privo di scientificità (a condizione che si abbandoni una certa mitologia del concetto di metodo scientifico). In genere, si è pensato che il metodo scientifico fosse soltanto quello sviluppatosi a partire da Cartesio, cioè il metodo capace di contenere tutte le variabili dell’esperienza e organizzarle in un sapere deduttivamente fondato o comunque verificabile empiricamente. In realtà, abbiamo poco da dedurre poiché non abbiamo alle spalle una verità inconfutabile e questo sembra ormai una acquisizione della società occidentale. In questo senso, l’Occidente si oppone al fondamentalismo, in quanto ideologia basata su verità inoppugnabili. Da questo punto di vista, il metodo scientifico deve abbandonare sia la possibilità di dedurre da premesse certe (la natura o la ragio-

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ne) che l’idea della pura verificabilità, ritenuta, per un certo lasso di tempo, il criterio fondamentale.

La narrazione è l’autoriflessione che si produce all’interno di una pratica e che conferisce a quest’ultima coerenza e stabilità. In tal senso un discorso può dirsi scientifico se è coerente e diagnostico, cioè se ha la capacità di capire le strategie implicate nelle narrazioni. Sotto questo profilo la pratica è un concetto un po’ più complesso del puro fatto, perché nella pratica sono immanenti l’intenzione, il progetto, la riflessione e anche l’autorappresentazione.

I saperi sono connessi sempre ad una pratica, e solo da una pratica si può in qualche modo risalire ai concetti e poi naturalmente ritornare alla pratica. Come affrontiamo allora il problema del rapporto fra diritto, etica ed economia? Si deve cercare invece di riflettere sulla pratica nella quale siamo immersi, coglierne poi il significato, vedere se questo significato può essere messo in discussione. Noi siamo immersi in una pratica terribile e angosciante, in cui è divenuta possibile la manipolazione della mente e della vita in forme finora sconosciute. In altri termini, come è noto, si stanno sempre più diffondendo interventi sul corpo umano, sulla psiche, sulla nostra vita che si inquadrano in questo processo que si chiama di mercificazione o commercializzazione. Alla base c’è una semplificazione del mondo fondata sul principio che si può fare tutto ciò che è economicamente valutabile, e che è valutabile economicamente tutto ciò che si può ridurre ad una misura di vantaggio e di svantaggio. Il principio della calcolabilità accompagna quello della manipolabilità: non solo possiamo ridurre tutto a calcolo, ma possiamo anche disporre di tutto ciò che è tecnicamente producibile. Si può manipolare tutto.

Questi due principi hanno a fondamento l’idea che ciascun individuo umano ha una struttura della motivazione riducibile al paradigma dell’utile, il quale viene così definito: è utile tutto ciò che soddisfa i bisogni dell’individuo, e ogni individuo di conseguenza agisce per soddisfare un proprio bisogno e per cercare l’utile. Caso mai il problema che si pone è quello di ridurre questa ricerca individuale dell’utile a un problema di scala attraverso il mercato che risponde all’imperativo individuale in termini generali. Se si dovesse dire oggi qual è l’imperativo di uno Stato, potremmo tranquillamente affermare che lo Stato ha il compito di realizzare il maggiore utile possibile per il maggiore numero di cittadini. L’imperativo di uno Stato è dunque la generalizzazione dell’utile dei singoli individui.

In questa prospettiva la "strategia dei diritti" si iscrive nella grande narrazione del progresso come conseguimento del benessere economico e del sistema giuridico-politico come "apparato" di "cura". La strategia dei diritti è sotto questo profilo l’altra faccia della manipolazione tecnologica del vivente e di quella che viene chiamata la "biopolitica".

2. La narrazione dei nuovi diritti

I "nuovi...

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