A trenta anni da 'La Questione Criminale': riflessioni politiche

AuthorDario Melossi
Pages147-153

Testo rivisto di una conferenza data il 14 aprile 2005 presso la facoltà di Giurisprudenza della Università di Barcellona sulla base di un gentile invito dell’amico Roberto Bergalli!

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Trent’anni fa, nel 1975, venne fondata La Questione Criminale -la rivista che durerà sino al 1981, per poi riprendere, due anni dopo, con il titolo "Dei delitti e delle pene"- è di lì che mi sembra valga la pena ricominciare, fu lì che cominciammo a pensare, da lì ripartire per "riannodare le fila".1Fu lì anche che cominciò un percorso che mi avrebbe portato a conoscere ed apprezzare l’amico Roberto Bergalli. Attraverso il "nesso" umano, culturale e politico costituito da Franco Bricola e Alessandro Baratta, più volte avrei calcato il suolo di questa bellissima, seducente città di Barcellona, la capitale della grande nazione catalana. Ma è soprattutto la prima volta che ricordo con affetto (anche se avrei poi conosciuto Roberto solo di lì a poco). Era nel settembre del 1977, l’"European Group for the Study of Deviance and Social Control" che, a cominciare dal 1973, un gruppo di noi giovani seguiva ogni settembre peregrinando di capitale europea in capitale europea, si riuniva a Barcellona. Fu facile prendere la decisione, insieme all’amica Tamar Pitch, montare sulla gloriosa Lambretta, caricarci su gli zaini e prendere il piroscafo per Barcellona. Trovammo una città che non era ancora la sede della Generalitat, che avrebbe cominciato ad esistere solo di lì ad alcuni mesi. Ed infatti, era una città che, nei giorni del convegno, vide la più grande manifestazione pubblica cui mi sia capitato di assistere in vita mia, l’11 settembre del 1977, per richiedere a gran voce appunto il riconoscimento dell’autonomia, un milione, forse più, di catalani si trovarono nelle strade e piazze di Barcellona, in cui non v’era posto per le FIAT-SEAT di allora né financo per la mia Lambretta. Solo uomini e donne, le loro voci, non un suono che non fosse la richiesta dell’indipendenza e i suoni e i canti che a quella si accompagnavano. Un gioioso 11 settembre, che faceva da contrappunto alla tristezza dell’11 settembre del 1973, quando l’"European Group" si era inaugurato a Firenze, e dovemmo alzare la voce della nostra protesta contro la tragedia cilena. Né sapevo allora2quanto importante fosse quella data per la nazione catalana che ricordava l’eroica difesa della città e la crudeltà dell’occupante, dopo la sollevazione ricordata nella canzone Els segadors, occupazione che aveva segnato la fine dell’autonomia cata-lana all’inizio del diciottesimo secolo.

Ma facile era anche venire a testimoniare la rinascita di un popolo, accomiatandosi da una situazione, quella italiana d’allora -marcata da manifestazioni a Bologna di un

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"movimento" che non aveva certo saputo ricucire le ferite del marzo prima- in cui si celebrava il naufragio, Italian style, delle ipotesi di liberazione che ci avevano accompagnati a cominciare dal 1967-‘68, ipotesi malamente gettate via da coloro che da un lato non sapevano esprimere sogni più alti di quelli che si manifestavano nelle dita alzate a forma di pistola e dall’altro quelli che non potevano che difendere i monumenti ormai muti della grandezza di un tempo. La mia partenza, di ritorno da Barcellona, la mia vera partenza, sarebbe stata, di lì a pochi giorni, per gli Stati Uniti. Volevo infatti comprendere chi veramente ci aveva sconfitti, chi fossero i veri vincitori, come fosse possibile che una cultura che aveva sedotto la "meglio gioventù" avesse dato vita anche alle forze che ne avevano sconfitti i sogni, paradosso reale, o solo apparente? (Una certa nostalgia circolerà in queste pagine quindi, e mi viene da ricordare anche il senso di nostalgia per, ma anche la nostalgia negli scritti di, un grande autore catalano, la nostalgia che si respira nelle sue pagine quando celebra con ironia triste la sinistra d’antan, Manuel Vázquez Montalbán e la strana vita del suo personaggio Pepe Carvalho, eroe comunista della resistenza nella Spagna franchista e poi uomo della CIA, e assassino di Kennedy...)

Ma veniamo al dunque. Un grande autore del novecento, Karl Polanyi, ebbe a scrivere, nel porre le basi per l’argomentazione del suo capolavoro, The Great Transformation (1944), in cui ricostruisce le basi della nuova società che si va creando negli anni Trenta, la società del New Deal, del welfare state, del keynesismo, del fordismo, che gli anni trenta appunto erano stati "rivoluzionari" mentre gli anni venti erano stati "conservatori", una visione sorprendente, in quanto è agli anni venti che siamo abituati ad attribuire il lustro della rivoluzione, da quella bolscevica appena accaduta, a quelle del centro Europa, etc. Ma queste rivoluzioni -ribatte Polanyi- sono ancora tutte interne al diciannovesimo secolo, combattono per ipotesi ed ideali che appartengono alla società che sta morendo. Sarà solo negli anni trenta che si costruirà la nuova società del novecento a cominciare dal colpo di genio della fine del gold standard... Vorrei provare ad applicare al caso nostro la stessa logica: "sessanta conservatori, rivoluzionari anni settanta". Anni sessanta conservatori perché guardavano al passato, un canto del cigno di un lungo "ciclo" di progresso: dal New Deal agli anni ’60. Non a caso uno dei leitmotiv di Reagan nei primi discorsi dopo il suo insediamento (1981) fu "dobbiamo tornare a prima del New Deal!" (Melossi 1985).

Ma le cose non sono naturalmente così semplici e sempre all’apice del periodo subito precedente germina l’annuncio del nuovo: così negli anni ’60 c’era l’annuncio degli anni ’70...

Recentemente, preparandomi per un convegno per il ventennale dalla scomparsa di Foucault, tenutosi a Trieste,3ho avuto occasione di riflettere sul rapporto dello studioso francese con il marxismo e mi sembra sia possibile riscontrare un certo consenso -peraltro incoraggiato da affermazioni dello stesso Foucault- secondo cui, in ampia parte, tale rapporto non fu soltanto con "la teoria di Marx" quanto anche con i marxismi storicamente dati che Foucault si era trovato di fronte nella sua esperienza storica, e francese, tra anni cinquanta e anni ottanta. Come osserva Balibar, "una vera e propria lotta con Marx percorre tutta l’opera di Foucault ed è una delle fonti essenziali della sua produttività"...

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