La tortura è alla Pagina Web

AuthorMauro Palma
Pages285-290

Una versione parzialmente diversa del presente articolo è stata pubblicata sulla rivista Dignitas. Percorsi di carcere e giustizia (n.º 5-2004).

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Le molte immagini dell’orrore

Le immagini cruente degli interrogatori e della detenzione in Iraq sono giunte, in alcuni mesi del 2004, sempre più numerose, corredate da video, da dichiarazioni, da rapporti, da informazioni sulle regole che hanno consentito che avvenisse ciò che mostrano o descrivono. Regole formali o regole trasmesse attraverso ordini dati a voce a persone giovani, galvanizzate nella loro lotta a un nemico assoluto. O anche attraverso l’acquiescenza e la copertura: strumenti di formazione della cultura concreta di chi opera in questi settori, ben più efficaci delle lezioni impartite nei corsi.

Così la tortura è entrata massicciamente nelle case del cittadino qualsiasi e, grazie alla diffusione planetaria dei mezzi di informazione, si è resa visbile alle diverse latitudini del globo. Non si potrà più dire di non sapere; non si potrà più chiedere se la tortura esista ancora o se la pratichino soltanto regimi non democratici, chiusi all’occhiuta vigilanza degli organismi internazionali e delle organizzazioni non governative.

Il contesto è certamente il fattore decisivo della sua persistenza. Ma il contesto non è solo quello degli eventi bellici, come forse si potrebbe supporre interpretando quelle immagini come fotogrammi del conflitto tuttora in corso. No, il contesto è piuttosto quello dell’aver stabilito una irriducibile negazione dell’altro; e ciò avviene anche in situazioni non formalmente conflittuali. Avviene quando non si è in grado di leggere in colui della cui libertà si è, seppur temporaneamente, responsabili e custodi, caratteristiche di somiglianza, o almeno di appartenenza allo stesso consorzio umano, ma si è portati a leggere soltanto un’irriducibile differenza, la rappresentazione di un male assoluto capace di aggredire, per il fatto stesso di esistere e costituire un’alterità, la propria dimensione esistenziale. Uno specchio negativo che proietta attraverso l’immagine del detenuto tutto ciò che colui che lo detiene vuole abbattere. Per questo il custode vuole annientarlo con un’umiliazione che degradi la sua umanità e gli permetta di non sentirsi più aggredito dalla sua esistenza; oppure con la capacità di ottenere da lui stesso la conferma della sua minorità, o richiedendogli di aderire a informazioni già definite o confinandolo al ruolo di delatore.

Così la tortura e il trattamento inumano o degradante si ripresentano periodicamente non solo nelle situazione di guerra, dove l’inimicizia è sancita, ma anche nei conflitti non formalizzati, e però densi di odio etnico, o nelle situazioni di tensione pur in normali operazioni, quando la persona detenuta o il suo gruppo di appartenenza

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vengono vissuti come nemico assoluto in grado di aggredire la stessa identità, individuale o collettiva, di chi lo detiene.

Può apparire strano, ma tali comportamenti nascono proprio da una presunta simmetria tra chi è privato della libertà in virtù di qualcosa ha commesso o di cui è sospettato e chi lo ha in custodia in virtù di un mandato della collettività, che egli nel suo agire rappresenta. E’ una simmetria mal posta, seppure frequente. L’abbiamo ritrovata in chi, dopo le immagini delle torture ad Abu Ghraib cercò di stabilire un parallelo con l’uccisione, avvenuta in quei giorni, del giovane Nick Berg, quasi a giustificare l’orrore delle prime con quello della seconda. Così non vedendo la differenza tra l’azione di forze dell’ordine o forze militari investite di un compito affidato loro dalla collettività del proprio paese e, quindi, espressione di un potere che richiede doveri nel comportamento e rispondenza a obblighi statualmente assunti, e l’azione di gruppi che agiscono in proprio rispondendo solo all’organizzazione o banda di appartenenza. E’ proprio questa impropria simmetria che alimenta la cultura del branco anche in forze che dovrebbero operare sotto regole e obblighi definiti, in virtù di un mandato pubblico; e così alimentata è produttrice di maltrattamenti e torture.

Che maltrattamenti e torture siano ben vive anche nel nostro mondo "democratico" non è del resto cosa nuova per chi ha compiti di indagine e ispezione nei luoghi opachi della privazione della libertà: nelle celle delle polizie, nei primi interrogatori dopo l’arresto, nelle carceri, nei luoghi di detenzione degli immigrati irregolari. Ovviamente non si tratta di un comportamento ordinario -sarebbe un errore non vedere l’evoluzione che, per esempio, ha avuto in Europa la cultura delle forze dell’ordine- ma di un comportamento pronto a manifestarsi quando la situazione evolve verso quel rapporto totalizzante di inimicizia verso singoli...

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