Sotto l'armatura del controllo

AuthorGiuseppe Mosconi
Pages154-168

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Questo scritto rappresenta una ristesura aggiornata e assai cambiata in diverse parti di "Oltre i limiti del controllo sociale", articolo pubblicato in Devianza ed Enargunazione, 1986, n.º 10, pp. 51-62. Lo dedico a Roberto Bergalli, che ho conosciuto correndo per i boschi di Onati, e dal quale poi in tante occasioni ho raccolto contributi su questo e su altri temi, con la stessa energia e intensità, tesa al cambiamento delle cose esistenti.

1. Le dicotomie del controllo

Due dimensioni notoriamente si confrontano e si intrecciano nella definizione e nello studio del controllo sociale. Quella della comunicazione partecipativa e condivisa, che spontaneamente colloca gli individui in sistemi di relazione socialmente adeguati. Quella dell’autorità esercitata in modo verticale, come strumento di limitazione del comportamento dei singoli e di repressione delle violazioni delle norme. Esse affondano le loro radici nella visione illuminista e giusnaturalista del rapporto tra individui e società, nella lettura ottimista (Rousseau) e pessimista (Hobbes) dello stesso, e appaiono riproporsi tanto attraverso le grandi dicotomie sociologiche (da Spencer a Tonnies), quanto nella diversa lettura del ruolo dello stato e delle diverse modalità secondo cui si organizzano le relazioni sociali.

Così un approccio particolarmente sensibile agli aspetti culturali, relazionali e interattivi degli aggregati sociali, da Spencer a Gurvitch, fino agli etnometodologi, concepisce il controllo sociale soprattutto nella prima dimensione; mentre la preoccupazione di ricostruire continuamente l’equilibrio e la stabilità del sistema sociale, messa in crisi dalla complessificazione indotta dallo sviluppo economico e tecnologico e dall’elevata frammentazione e mobilità sociale da Ross a Parson, fino, per certi aspetti, al neofunzionalismo di Luhmann, porta ad attribuire particolare enfasi alla seconda dimensione.1 Non necessariamente queste due concezioni del controllo sociale sono pensate in termini conflittuali, così da escludersi reciprocamente. Ad esempio in un approccio costruzionista, quale quello criminologico-critico, esse coesistono dislocandosi a livelli diversi.

Così il controllo sociale "primario", è definito da A.K. Cohen come insieme di processi e di relazioni attraverso cui i comportamenti e gli eventi si integrano nella stabilità delle norme, prevenendo la violazione delle stesse. Esso è indiretto, informale, e incide sulle motivazioni, orientandole positivamente. Il controllo "secondario" è invece l’insieme dei mezzi di reazione alla violazione delle norme, dopo che questa si sia verificata, preposti alla ricostruzione dell’ equilibrio. Esso è diretto, formale, e si oppone in chiave negativa alle motivazioni soggettive.2Ma le due dimensioni possono addirittura sovrapporsi e contaminarsi.

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Infatti il controllo primario, pur inteso come comunicazione intersoggettiva, even-tualmente orientata a valori condivisi, può venire interpretato come l’effetto dei processi di manipolazione e di condizionamento sul comportamento dei singoli dispiegati dai mezzi di comunicazione di massa o dalla pervasività della tecnologia nei comportamenti e nelle relazioni sociali . D’altra parte lo Stato, nel momento in cui si trova a far fronte al pluralizzarsi e complessificarsi della composizione sociale e ai pericoli di disgregazione ad essi intrinseci, viene ad assumere funzioni assistenziali di integrazione sociale, incentivando comunicazione, interazione, partecipazione, convivenza interculturale (Scuola di Chicago, Keynes, Dahrendorf).3D’altra parte, quale maggiore legittimazione di un controllo sociale agito dall’alto che l’ipotesi di un consenso generalizzato e condiviso ai contenuti normativi affermati dal "sovrano". La situazione analizzabile attraverso la categoria di "controllo sociale" si trova dunque all’incrocio di due possibilità interpretative. La condizione in cui le norme operano formalmente e il sistema sociale sembra mantenere equilibrio e stabilità può essere di volta in volta addebitata alle interazioni comunicative tra i soggetti (per questo manipolata e manipolabile) o all’azione repressiva, ma anche coordinatrice e reintegratrice di un sovrapposto sistema di controllo.

Molto spesso Roberto Bergalli, nei suoi diversi lavori dedicati al tema del controllo sociale, si è trovato di fronte a questa dicotomia e a queste ambiguità; e giustamente ha sottolineato come la concezione di controllo sociale vada di pari passo con la concezione politica di società e di esercizio del potere che ispira le diverse teorie e i diversi approcci.4Tanto che che appare evidente come l’evolversi delle diverse definizioni e concezioni di controllo sociale segua l’evoluzione delle forme dei sistemi politici, delle funzioni dello stato e delle formulazioni teoriche cui le stesse si accompagnano. Se infatti in astratto è concepibile una distinzione tra un’accezione sociologica di controllo sociale, orientata ad interpretare il fenomeno in relazione a diversi modelli di società, ed una concezione politologica, orientata ad analizzare il modo in cui i controllo sociale venga o debba essere esercitato in un determinato sistema politico-statale, è evidente la diversa valenza politica, di volta in volta conservatrice, riformatrice o radicalmente critica, dei diversi approcci sociologici, così come è impensabile che i vari orientamenti politici non facciano di volta in volta riferimento a un’idea di controllo sociale, al modo in cui lo stesso possa funzionare, o non possa che funzionare. Forse poche altre categorie sociologiche sono così compromesse con la dimensione delle scelte politiche, o degli orientamenti ideologici.5E non è detto che le posizioni autoritarie e conservatrici debbano allinearsi ad un’idea di controllo sociale come esercitato autoritariamente da un potere centrale sovrapposto, mentre quelle innovatrici debbano pensare ad un controllo comunicativo diffuso. Proprio un orientamento fortemente innovativo come quello critico-conflittualistico può immaginare il controllo sociale come una forma di potere autoritario, repressivo o diffusamente manipolatore, contro il quale solo decisi interventi destrutturanti meritano credito; così come una società sostanzialmente autoritaria può autolegittimarsi attraverso la costruzione dell’immagine di un diffuso consenso comunicativo e suo sostegno.

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Ora il fatto è che sia l’una che l’altra dimensione del controllo sociale appaiono inadeguate ad analizzare la realtà del controllo attuale, data la complessità che caratterizza le società postindustriali, così come la società globalizzata. Da un lato infatti, anche se sono evidenti tendenze alla totalizzazione economica e politica, così come è vero che le scelte di pochi aggregati di interessi forti sono in grado di condizionare la scena globale,6è impensabile un sistema di controllo che funzioni in modo unidirezionale, autoritario e verticistico, pervadendo di sé la vasta e disarticolata gamma delle relazioni sociali; così come la frammentazione dei legami sociali, la pluralizzazione culturale, il dinamismo delle varie forme di mobilità sociale, l’orientamento a modelli culturali, come diremo, pragmatici e avalutativi sono tali da rendere improbabile l’idea di un controllo sociale fondato sulla comunicazione orizzontale e compartecipe, mentre si determinano, d’altra parte, aree e flussi di comunicazione inter-soggettiva non facilmente riconducibili alla funzionalità del controllo, strutturalmente estranei all’ economia di un controllo repressivo.

E’ a fronte di questi aspetti che la scelta di uno o dell’altro modello di controllo sociale rischia di risultare ideologica, in quanto funzionale ad un certo sistema di potere, o ottimisticamente orientata a verosimili prospettive di cambiamento.7Così, in questa prospettiva un’analisi del controllo sociale delle società complesse che lo descriva come fondato essenzialmente nel semplice piano soggettivo della reciprocità e delle interazioni interiorizzate, o, come più recentemente, sulla profonda condivisione del bisogni di sicurezza e del bisogno dei tutelare i livelli di benessere raggiunti,8rischia di legittimare l’immagine falsante di un sistema sociale integrato a tutti i livelli, anche attraverso un consenso esplicito dei singoli. Per altro verso imputare l’apparente stabilità dei sistemi contemporanei a una loro totalizzante capacità di disciplinamento e di intervento repressivo sui rapporti sociali può significare da un lato ipervalutare la capacità di controllo del sistema, dall’ altro disconoscere le spinte reali al cambiamento, precludendo la possibilità di uno sviluppo concreto delle stesse.

Il problema è che entrambe le definizioni di controllo sociale, al di là della loro contrapposizione, fanno riferimento ad un’idea di controllo complessivamente organico, descrivibile, efficace, condiviso, con funzioni specifiche e ben definite, in grado di condizionare, nella sua percepibile morfologia, l’intera struttura ed organizzazione dei rapporti sociali. Così come le stesse implicano una descrizione piuttosto organica e definita di società, di volta in volta comunicativa-partecipativa, autoritaria, conflittuale, comunque poco adeguata a descrivere e interpretare la complessità dei processi che pervadono le società contemporanee. Quella descrizione si sostanzia di una serie di elementi, variamente assunti e dati per scontati all’interno dei due modelli sopra descritti: il rapporto tra controllo sociale, potere statale, produttività economica e struttura sociale; la rispondenza consenziente dell’opinione pubblica, la capacità di controllo

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esercitata dal diritto, l’individuabilità della devianza come oggetto specifico del controllo, l’univocità stereotipica dei fenomeni verso cui il controllo si attiva.

2. La desuetudine della...

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