Prevenzione, controllo sociale e libertà personale

AuthorTamar Pitch
Pages169-182

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Nelle pagine che seguono il fuoco non è direttamente sui diritti, almeno in apparenza. Ma a ben guardare la questione dei diritti è centralmente implicata nelle politiche di cui parlerò, politiche di controllo sociale e per la sicurezza dei cittadini. Come è ovvio, e come ho già argomentato in pagine precedenti, sicurezza e libertà sono spesso state messe in conflitto. Già Hobbes, nel Leviatano, sacrificava ogni altro diritto perché il Principe (lo Stato moderno) assicurasse ai suoi sudditi il diritto alla vita. Il potere di punire, che dall’età moderna è stato avocato a sé dallo Stato, comporta necessariamente la lesione di diritti fondamentali, che non per caso vengono protetti, quantomeno formalmente, attraverso le garanzie processuali e penali tipiche degli Stati di diritto (cfr. Ferrajoli, 1989). Ma il diritto penale e le istituzioni del sistema di giustizia penale hanno non tanto lo scopo di punire, quanto quello di prevenire futuri delitti, attraverso la minaccia di pene certe rivolta alla popolazione intera.

Il sistema penale, tuttavia, non è mai stato il modo principale né quello più efficace di controllare la cittadinanza. Vi è una immensa letteratura sociologica, a partire da quando la sociologia stessa è emersa come disciplina specifica (la metà del XIX secolo) che indaga come le diverse società, e in particolare la nostra, siano organizzate per produrre consenso o almeno contenere il dissenso rispetto alle norme e ai valori dominanti. Nessuna collettività può del resto sussistere senza un certo grado di controllo sociale. Le modalità di controllo mutano storicamente, sulla base dei mutamenti nell’organizzazione sociale, economica, culturale, politica. Secondo Foucault, per esempio, la modalità tipica dell’età moderna è la disciplina, ossia un complesso di pratiche,poteri e saperi che contribuiscono a produrre individui: il carcere è, sempre per Foucault, solo uno dei luoghi in cui si esercita la disciplina, gli altri essendo le fabbriche, le scuole, gli eserciti, ecc.

La compressione di alcune libertà fondamentali è dunque strettamente implicata nei diversi modi di produzione e imposizione del controllo.

Recentemente, vi sono stati, nelle nostre società, mutamenti importanti in questa sfera. Alcuni hanno origine nel cambiamento dell’organizzazione del lavoro (dal fordismo al post-fordismo), nei processi di erosione dei poteri degli stati nazionali a seguito dell’intensificarsi della globalizzazione, che hanno comportato, tra l’altro, la crisi dei sistemi di welfare. Il dominio dell’ideologia neoliberista è un altro elemento, collegato, da considerare. Ancora più recentemente, guerre terrorismo internazionale hanno comportato l’adozione, in molti paesi, e in primo luogo negli Usa, di un forte restringimento e compressione dei diritti di libertà. L’utilizzazione sempre più intensa e diffusa di strumenti di sorveglianza e investigazione elettronica pongono fondamentali questioni di libertà personale, difesa della privacy, ecc. Ma sono anche

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i diritti sociali a venire fortemente compromessi dai mutamenti nelle modalità di controllo sociale odierni.

E’ di questo che si parla diffusamente nelle pagine che seguono.

Prevenire è meglio che curare, prevenire è meglio che reprimere. Due slogan degli anni settanta che non sono cambiati tanto nella forma quanto nella sostanza.

La crisi dello stato sociale, che poi è contemporaneamente la crisi dello stato-nazione, comporta deregolamentazione e insieme declino delle forme di organizzazione collettiva. La disoccupazione di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro vanificano le protezioni collegate al lavoro, cui si sostituisce la promozione di un modello biografico: ciascuno/a deve farsi carico da solo/a dei rischi del suo percorso professionale diventato flessibile e discontinuo. L’avvenire diventa fonte di minaccia e di paura, il risentimento compare come la risposta sociale al malessere sociale, inducendo un atteggiamento difensivo che rifiuta, assieme alle novità, anche il pluralismo e le differenze, e va in cerca di capri espiatori.

Gli slogan degli anni sessanta e settanta, dunque, hanno oggi sostanza assai diversa da allora. Prevenire è ancora meglio che curare, ma la prevenzione non è più un compito sociale, collettivo, istituzionale, ma individuale e privato. Per quanto riguarda, poi, la prevenzione nel campo della devianza e della criminalità, essa è intesa come una serie di politiche mirate a rendere la commissione di delitti più difficile, piuttosto che a migliorare le condizioni sociali che, fino a non molto tempo fa, venivano considerate come all’origine di devianza e criminalità stesse, e a convincere i cittadini a prendere misure adeguate per non diventar vittime o, se lo diventano, a ridurne il danno (attraverso il mercato privato delle assicurazioni).

Già Cohen, nel 1985, parla dell’avvento di saperi criminologici e politiche criminali "amministrativi", intendendo con questo indicare il nuovo disinteresse per la ricerca o l’ intervento sulle (supposte) cause della criminalità. Ricerca e intervento si orientano invece, almeno in linea di tendenza, verso l’individuazione di modalità preventive rispetto alla criminalità (comune) che fanno largo uso di modelli probabilistici per deter-minare le caratteristiche salienti (i profili) di popolazioni "a rischio" di commettere reati e illegalità. Queste popolazioni saranno sorvegliate più attentamente, e se un individuo che possiede alcune di queste caratteristiche (tipicamente, è un giovane nero o ispanico, disoccupato, proveniente dalle inner cities, con famiglia problematica alle spalle, o, in Italia, è un migrante musulmano...) viene arrestato riceverà una pena commisurata non tanto al reato commesso, quanto al grado di pericolosità sociale calcolato in base alle caratteristiche stesse.

La svolta rispetto alla criminologia positivista tradizionale, e alle politiche criminali ad essa variamente ispirate, si ha però con lo slittamento di attenzione dal "criminale" alla "vittima". La questione di fondo diventa quella di diminuire il rischio di vittimizzazione, piuttosto che quella di intervenire sulle "cause" della criminalità. La maggior parte dei saperi criminologici odierni mette al centro la "vittima", le ricerche sulla vittimizzazione e quelle sulla "paura della criminalità" sono non solo le più diffuse, ma quelle che vengono richieste o comunque orientano le tendenze di fondo delle politiche criminali. La parola d’ordine dei governi nazionali e locali diventa "la sicurezza dei cittadini": una sicurezza che ha qui il significato di venir messi al riparo quanto più possibile dal rischio di rimaner vittime di reati e inciviltà comuni. Oggi, sicurezza nel discorso pubblico significa questo, piuttosto che sicurezza sociale, e a questo si provvede attraverso misure di prevenzione varie. In ciò che segue descriverò più dettagliatamente la svolta e le sue conseguenze,

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per ciò che riguarda in particolare la spinta alla prevenzione cosiddetta situazionale e a quella individuale e privata.

Nelle società di welfare i paradigmi dominanti del controllo sociale erano due, intrecciati. Per un verso, l’idea che devianza e delinquenza avessero cause sociali e culturali legittimava politiche di intervento per l’appunto di tipo sociale e culturale; per un altro verso l’idea che devianti e delinquenti avessero introiettato in modo inadeguato e imperfetto le norme si traduceva in politiche di intervento sui singoli devianti e delinquenti al fine di mutarne le motivazioni interne. La crisi delle politiche di welfare porta con sé il declino delle ipotesi di riforma e bonifica del territorio così come quelle della riabilitazione e risocializzazione. E’ il paradigma positivista, alla base in un modo o nell’altro di tutte le teorie e analisi della questione criminale fin dall’800 a venire radicalmente messo in crisi. Tecniche e strategie di controllo cominciano a venir teorizzate e pensate indipendentemente da una indagine sulle cause dei fenomeni da controllare e reprimere. Lo slittamento di attenzione dai criminali alle vittime, la centralità della nozione di rischio, l’enfasi sulla responsabilità individuale (del criminale come della vittima) sono le caratteristiche delle criminologie oggi dominanti, nel senso almeno di orientare retorica e, in parte, dinamiche delle politiche di controllo sociale contemporanee.

La nozione di rischio viene declinata in due sensi: il rischio di rimanere vittime di reati e il rischio di commetterli. Ambedue i rischi sono calcolati a partire da una serie di elementi che individuano, gruppi, popolazioni: a questo fine, sono ininfluenti fattori relativi alla personalità o al contesto socioambientale del singolo. La tecnica del profiling, insomma, è utilizzata sia per costruire profili di criminali che profili di vittime. A queste ultime è attribuito l’onere di provvedere esse stesse alla propria protezione, ciò che del resto è sempre avvenuto nel caso delle donne e delle violenze a sfondo sessuale. Chi non vi provveda, non sia cauto e attento, avrà in qualche misura "meritato" la propria vittimizzazione.

A provvedere a che le potenziali vittime stiano attente contribuiscono non solo campagne di stampa, ma la produzione di libretti e opuscoli a cura dei vari uffici di sicurezza urbana ormai diffusi un po’ ovunque in Italia, che lanciano una serie di avvertimenti: chiudere bene porte e finestre di casa, munirsi di sistemi di allarme, non circolare in luoghi isolati e ad ore notturne, non portare con sé in modo visibile monili e gioielli, ecc. Queste precauzioni rendono esplicito e in qualche modo imperativo ciò che molti e sopratutto molte cittadine già comunque fanno, di fatto riducendo notevolmente la loro libertà di movimento.

Conviene analizzare un po’ più a fondo, a questo proposito, la perdurante differenza tra uomini e donne rispetto all’agio con cui è concesso loro di muoversi nei contesti urbani. Una ricerca di qualche tempo fa...

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