Appunti della prima lezione di diritto penitenziario

AuthorMassimo Pavarini
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Nella Universale Laterza si legge una intelligente collana di "Prime lezioni". Per ora circa quindici brevissimi volumi: da Giovanni Jervis che pubblica la sua prima lezione di psicologia, a Paolo Grosso che detta, da ultimo, la sua prima lezione di diritto. In mezzo, le altre prime lezioni: di storia greca, di antropologia, di urbanistica, di biologia, di neuroscienze, ecc.

Nel presente anno accademico 2004-2005 ho tenuto nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bologna, in data 9 marzo 2005, nell’aula V della Sede Centrale, dalle 17 alle 19, la prima lezione di diritto penitenziario ad una platea di circa 70 studenti.

Qui di seguito, per punti, la "scaletta" della lezione.

1. C’è stato (ed ancora stancamente langue) la pretesa di chi si confronta con l’"essere della penalità" di farsi ascoltare da chi della stessa si occupa prescrittivamente Alla osservazione per cui "Il (vostro) "dover essere" della pena non si realizza nei fatti" il penalista dogmatico a ragione ha potuto opporre il "Silète poenologi in munere alieno!"

L’ "essere" non può inficiare il "dover essere". Corretto, ma anche Hume subordina il principio ad una condizione: che il "dover essere" indichi una possibilità realisticamente perseguibile.

La promessa della modernità che la pena debba perseguire (anche) scopi di prevenzione, cioè di utilità sociale, non è pertanto inficiata dalla verifica che ciò non si da (ancora) nei fatti; non altrettanto, ove si convenga che questa finalità non possa in ogni caso darsi. Altrimenti -equivocando- usciremmo dal discorso razionale. Saremmo cioè al di fuori della modernità.

  1. Per quel poco che riesco ad intendere, lo sviluppo della scienza penalistica nel suo esito di scienza dogmatica non solo ha potuto compiersi, tra otto e novecento, mettendo tra parentesi la questione dello scopo, ma affermerei che ha potuto svilup-parsi all’origine proprio perché mise tra parentesi questo. Nel divorzio tra filosofia del diritto penale e scienza dogmatica del diritto penale, i fini della pena finirono per non appartenere alle preoccupazioni della scienza penalistica in senso proprio. E la dogmatica poté realizzarsi (esclusivamente) come/nella teoria generale del reato. Ed è per questo, mi sembra, che la concezione della retribuzione legale fu (o apparve) il più agevole espediente per rivendicare un’area di autonomia dalla politica criminale e dalla filosofia del diritto penale, proprio perché la retribuzione legale non era (e non è) in grado di esprimere una finalità del sistema penale, ma solo di affermare un criterio

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    formale di equivalenza sistemica (forse negli auspici di alcuni più sensibili alla vecchia cultura illuminista, in chiave riduzionista). Ma comunque, per la dogmatica, accontentarsi nell’esplicitare criteri formali di proporzionalità tra delitto e pena alla fine illuse di garantire la distanza massima (virtuosa e quasi necessaria) da ogni pericoloso e sempre imbarazzante inquinamento con il piano delle funzioni e quindi della politica.

  2. Con la decade degli anni quaranta del secolo passato il sistema della dogmatica penalistica -preciso: il sistema della dogmatica e non quello della giustizia criminale già fortemente inquinato da valutazioni finalistiche se non altro per la incomprimibile invasività di valutazioni positivistiche di pericolosità- si apre, direi per necessità, alla dimensione dello scopo. Necessità politiche di alto profilo, indubbiamente: gli imperativi delle democrazie nella formazione degli stati sociali di diritto impongono di reclutare anche la scienza penalistica alle funzioni proprie di una agenzia "laica" di governo dei conflitti sociali. La riflessione dogmatica deve quindi ricostruirsi ponendo a proprio fondamento il fine di prevenzione. Questo fu, prevalentemente, anche se non esclusivamente, di prevenzione speciale positiva.

  3. Nella sua essenza, l’esperienza di educare (o rieducare, risocializzare, emendare, recuperare e reintegrare socialmente, ecc.) chi ha violato la legalità penale si iscrive nel registro ambiguo della modernità, sospeso tra una metafora egemonica e una speranza di liberazione. E’ metafora egemonica, nella espressione che vuole che gli esclusi -e quindi socialmente pericolosi- possano essere socialmente (ma soprattutto, politicamente) accettati solo ed in quanto educati alla legalità; è stata anche speranza di liberazione degli esclusi stessi e/o di chi politicamente li ha rappresentati, come fiducia nella socializzazione a quelle virtù che promettono di liberarsi definitivamente dai pericoli di un destino sciagurato per i membri del lupenproletariat. Da un lato, pedagogia (sognata in verità, più che effettivamente realizzata) alla nuova legalità; dall’altro lato, virtuoso percorso (anch’esso in verità immaginato piuttosto che effettivamente praticato) per liberarsi dallo status di "canaglia" e finalmente potere "partecipare" politicamente nella nuova democrazia di massa.

    Su questa ambiguità di fondo, si stende la ricca e contraddittoria trama della prevenzione speciale positiva. Non esiste esperienza detentiva del mondo occidentale che non abbia visto nella risocializzazione del condannato lo strumento principe di difesa sociale dal crimine; non esiste pensiero progressivo e volontà solidarista che non abbiano inteso la medesima finalità come strada maestra di emancipazione sociale. Ma una ambiguità che si è costruita prevalentemente intorno a due volontà politiche che sovente solo allo stato di aspirazioni sono rimaste. Due prospettive ideali radicalmente opposte di apprezzare il medesimo bene. In effetti, storicamente, il modello correzionale di giustizia penale non è stato antidoto efficace alla recidiva, come altrettanto raramente la integrazione nella cultura della legalità ha prosciugato l’universo sociale di chi ha continuato a confidare nella lotta individuale, egoistica e illegale piuttosto che in quella collettiva, organizzata e nel tempo legalizzata. Ma tant’è: come idee esse hanno significato molto, hanno fatto parte della storia della modernità.

    Questa storia "ideale" di una irrisolta ambiguità tra volontà di egemonia e volontà di liberazione percorre tutta la modernità. All’interno di questa storia, conviene segnare alcune fasi, a noi più prossime, per altro anch’esse ideali nel senso weberiano.

  4. Esiste una fase decisiva -di norma quella che si impone negli stati sociali di diritto- che si costruisce sul paradigma del deficit nell’interpretazione della esclusio-

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    ne/devianza/criminalità e che quindi proietta una immagine tipologica di homo criminalis di stampo positivista. E’ pericoloso chi ha "meno", chi ha deficit. Deficit fisici, psichici, affettivi, culturali, sociali. Eliminato o ridotto il deficit, eliminata o ridotta la pericolosità sociale. L’ evidenza dell’osservazione -nell’inganno proprio di ogni processo autoreferenziale- conferma l’assunto: visitate le carceri e vi troverete sempre e dovunque dei soggetti deboli. La pericolosità sociale dei criminali radica quindi nel loro status d’inferiorità e non nella loro natura malvagia. La strada maestra non può che essere una e una sola: operare per ridurre le differenze sociali. Nel settore delle politiche penali ciò comporta l’imporsi dello scopo special-preventivo della pena. Una pena medicinale che sia in grado -come un farmacum- di aggredire le cause del male, cioè di ridurre ed eliminare i deficit. In primis: i deficit socio-economici. Realisticamente -o idealisticamente?- il primo livello di passaggio dalla illegalità alla cultura della legalità -per chi sia povero- si conquista nell’apprendimento delle virtù parsimoniose di chi vive del proprio lavoro. La cultura alla legalità e pertanto passaggio obbligato ad ogni processo di inclusione sociale, che è in primo luogo (ossessivamente) inteso come inclusione nel mercato del lavoro. Il modello di produzione c.d. fordista arricchisce poi ulteriormente il contenuto di questa retorica, persuadendo a "sinistra" della bontà dell’impresa pedagogica. Se da un lato -da un punto di vista delle necessità di controllo sociale- sono le disciplinate masse operaie che tranquillizzano se messe a confronto con quelle indisciplinate e criminali, dall’altro lato, il processo di integrazione del movimento dei lavoratori nel governo dello stato sociale assicura in termini di partecipazione democratica l’esito della compiuta socializzazione alla legalità. E’ questa la stagione d’oro -segnata da forte ottimismo- delle politiche di rieducazione attraverso le pratiche trattamentali.

  5. La fase sopra descritta ha, in effetti, primo o poi una fine, nel senso che...

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